Condannata per lite temeraria la parte che, prima d’intraprendere la lite, non verifica la legittimazione passiva

Condannata per lite temeraria la parte che, prima d’intraprendere la lite, non verifica la legittimazione passiva
12 Novembre 2019: Condannata per lite temeraria la parte che, prima d’intraprendere la lite, non verifica la legittimazione passiva 12 Novembre 2019

IL CASO. Tizio e Caio avevano convenuto in giudizio avanti al Tribunale di Varese la società Alfa, per ottenere la restituzione della caparra confirmatoria di una locazione immobiliare, ch’essi avevano corrisposto mediante assegno sottoscritto senza indicazione del beneficiario e consegnato ad un agente immobiliare nell’interesse del proprietario, che era poi risultato essere diverso dal soggetto convenuto in giudizio.
Il Tribunale aveva rilevato che la società convenuta era carente di legittimazione passiva, “in quanto avente causa dalla società proprietaria nell’interesse della quale il mediatore immobiliare aveva agito e ricevuto l’assegno emesso senza indicazione del beneficiario, poi incassato dalla società che al tempo risultava proprietaria dell’immobile”. 
In ragione della rilevata carenza di legittimazione della società Alfa, e “constatato il rifiuto dei ricorrenti a conciliare la lite sia nella fase di mediazione cui erano stati avviati obbligatoriamente, che in sede giudiziale”, il Tribunale di Varese, nel rigettare la domanda, aveva accolto la domanda della convenuta di condanna dei ricorrenti per lite temeraria ex art. 96, comma primo c.p.c..
Avverso tale decisione Tizio e Caio avevano proposto appello innanzi alla Corte d’appello di Milano. 
Quest’ultima aveva confermato la sentenza per la parte impugnata relativa alla condanna ex art. 96, comma primo c.p.c., sull’assunto che “la parte attrice avrebbe dovuto verificare il soggetto che aveva posto all’incasso l’assegno consegnato al mediatore e che fosse onere della parte che agisce verificare il soggetto titolare dell’immobile all’epoca della consegna della caparra confirmatoria”. 
Il Giudice di secondo gravo aveva, altresì, respinto la censura relativa alla quantificazione del danno, giudicando equo l’importo liquidato di Euro 1.000,00 all’anno, parametrato alla durata del processo.
Tizio e Caio avevano, pertanto, proposto ricorso per cassazione, in base ad un unico motivo, “variamente articolato”. 
In particolare, i ricorrenti avevano dedotto “violazione o falsa applicazione degli artt. 2056 e 1227 c.c., per non avere la Corte considerato il comportamento silente tenuto dalla controparte prima del giudizio nonostante la ricezione formale ante litem della richiesta restitutoria, per poi costituirsi e chiedere ex professo la condanna per lite temeraria; la mancata osservanza dei principi espressi negli artt. 2 e 47 Cost. in relazione ai doveri di solidarietà sociale in ragione del comportamento tenuto nella fase stragiudiziale dalla convenuta; nonché la violazione dell’art. 96 c.p.c., comma 1, che, avendo natura di illecito aquiliano, non ammette una condanna per lite temeraria in assenza di prova dell’an e del quantum debeatur”. 

LA DECISIONE. La Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 23341/2019, ha ritenuto il motivo “inammissibile e infondato”. 
Nel farlo, ha colto l’occasione per soffermarsi sulla disposizione di cui all’“art. 96 c.p.c., comma 1, che disciplina la lite temeraria” e “prevede una fattispecie risarcitoria con funzione compensativa del danno cagionato dal cd. illecito processuale, derivante dalla proposizione di una lite temeraria”.
Ha precisato che l’art. 96, primo comma c.p.c. “presuppone non solo la soccombenza nel grado di giudizio in cui è disposta, ma qualifica una species di illecito civile riconducibile al genus della responsabilità extracontrattuale ex art. 2043 c.c. (così Cass. n. 9080 del 15/04/2013)”. 
Con la conseguenza che “condizione per il riconoscimento dei danni ai sensi dell’art. 96, comma 1 - a differenza di quanto previsto per la condanna disciplinata dal comma 3 … - è l’istanza della parte, che deve altresì assolvere all’onere di allegare (almeno) gli elementi di fatto necessari alla liquidazione, pur equitativa, del danno lamentato (Cass. Sez. U., Ord. n. 7583 del 20/04/2004, Sez. U., Ord., n. 1140 del 19/01/2007)”. 
Il Giudice di legittimità ha poi aggiunto che l’art. 96, primo comma c.p.c. “consente di colpire condotte che, nel quadro di applicazione art. 2043 c.c., comporterebbero responsabilità risarcitoria. Dunque il requisito dell’ingiustizia, nel bilanciamento degli interessi in gioco, sussiste quando l’agire del danneggiante sia caratterizzato dal requisito di temerarietà della lite, ravvisabile nella coscienza dell’infondatezza o nel difetto della normale diligenza per l’acquisizione di detta coscienza, e non solo nella semplice prospettazione di tesi giuridiche errate (v. Cass. n. 15629/2010). Il danno da responsabilità aggravata per lite temeraria è costituito infatti dal pregiudizio strettamente determinato dal processo, e non dall’ipotetica lesione del diritto di cui nel processo di cui si controverte, in cui è dunque ricompreso quello da violazione del termine di ragionevole durata del processo per una lite che si sarebbe potuta facilmente evitare, ove imputabile alla parte stessa (Sez. 1, Sentenza n. 24359 del 15/11/2006; Cass. 24360/2006; 23322/2005)”. 
Fatte queste premesse, la Corte ha ritenuto “infondato” il motivo, per più ragioni. 
Anzitutto, perché “la Corte di merito ha motivato le ragioni della condanna per lite temeraria dando rilievo alla condotta processuale negligente tenuta dai ricorrenti non solo nell’intentare, ma soprattutto nel persistere, in una controversia senza avere previamente accertato se la parte processuale convenuta in giudizio corrispondeva a quella che aveva incassato l’assegno e risultava proprietaria al tempo della consegna della caparra al mediatore, giudicando equo l’importo risarcitorio liquidato dal giudice in relazione alla durata del procedimento”.
Inoltre, “il comportamento silente tenuto dalla controparte non legittimata passivamente prima della lite non ha alcun peso nella valutazione comparativa dei comportamenti assunti dalle parti processuali, poiché la parte attrice è il soggetto precipuamente tenuto a verificare il titolare passivo della pretesa prima di intraprendere la lite e, comunque, non appena viene eccepita processualmente la carenza di legittimazione. Com’è noto, la legitimatio ad causam si ricollega al principio dettato dall’art. 81 c.p.c., secondo il quale nessuno può far valere nel processo un diritto altrui in nome proprio fuori dei casi espressamente previsti dalla legge, e comporta - trattandosi di materia attinente al contraddittorio e mirandosi a prevenire una sentenza inutiliter data - la verifica, anche d’ufficio in ogni stato e grado del processo (con il solo limite della formazione del giudicato interno sulla questione) e, in via preliminare al merito, della coincidenza dell’attore e del convenuto con i soggetti che, secondo la legge che regola il rapporto dedotto in giudizio, sono destinatari degli effetti della pronuncia richiesta (Cass. Sez. U., 13/03/2018 n. 7925/2019; Cass., Sez. U, 9 febbraio 2012, n. 1912).
Pertanto il giudice ha tratto argomenti presuntivi della responsabilità dal comportamento processuale tenuto dagli attori che hanno non solo inutilmente intrapreso, ma consapevolmente continuato, una lite nonostante il rilievo della carenza di legittimazione effettuato prontamente dalla parte convenuta in sede processuale”.
Inoltre, “anche sotto il profilo del rispetto degli obblighi di buona fede e di solidarietà non assume rilievo il comportamento silente tenuto dalla parte convenuta che ha ricevuto la richiesta restitutoria prima della lite poiché, come sopra detto, in ragione del comportamento silente di una parte non legittimata passivamente i ricorrenti avrebbero dovuto a maggior ragione attivarsi per verificare se vi fossero le condizioni per agire nei suoi confronti”. 
Infine, “sotto il profilo della applicazione delle regole probatorie in materia di illecito aquiliano, … non risulta che i giudici di merito siano incorsi nelle violazioni riferite, posto che la temerarietà della lite è stata ravvisata nella coscienza dell’infondatezza o nel difetto della normale diligenza per l’acquisizione di detta coscienza, e dunque con valutazioni di merito adeguate alla fattispecie in esame, anche con riferimento al quantum debeatur che è stato correttamente misurato in relazione alla durata della lite”. 
Per tali motivi, La Corte di Cassazione ha, pertanto, rigettato il ricorso.

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